Indie sellers, no fees Check it Out!
Buonasera Monogamia è un lavoro intimo, dal taglio diaristico, che riunisce un insieme disomogeneo di visioni frammentarie nelle quali le sensazioni corporee e gli stati psichici si succedono senza soluzione di continuità.
Questa fanzine (alla quale è seguita una seconda pubblicazione, intitolata Buonasera Monogamia II) è parte di un progetto di autoproduzione iniziato nel 2019 da Irene Montemurro, artista lucana ad oggi residente a Londra.
L’eloquenza dei disegni è senza dubbio uno dei maggiori punti di forza dell’opera. Si tratta di illustrazioni nate da un’osservazione diretta della realtà, nelle quali i dettagli del quotidiano vengono rappresentati con un tratto minuzioso, quasi ossessivo. Seppure tendenti al realismo, i disegni dell’autrice non celano la matrice grafica che li costituisce: la mimesi, infatti, non è mai del tutto compiuta. Le figure, gli oggetti, le atmosfere sono resi senza l’intenzione di ingannare l’occhio, di creare simulacri. Quelli di Montemurro sono, difatti, disegni che oscillano tra la referenzialità e l’astrazione, e nei quali il grafismo del segno non viene mai rinnegato ma, al contrario, esaltato. Le possibilità che offre un semplicissimo mezzo espressivo quale la linea nera sulla pagina bianca, vengono sondate dall’autrice in tutto il loro potenziale: il suo tratto sottile si contorce, si moltiplica, si fa puntinato, frastagliato, geometrico o lasso. Nelle tavole, le diverse soluzioni compositive appaiono accostate l’una all’altra, si integrano o alternano, andando così a creare immagini composite, mutevoli e organiche.
La prima delle tre sezioni del volume è quella più laconica e spoglia di testi. In queste pagine, una serie di fotogrammi immobili mostrano alcuni attimi di intimità tra amanti. Nonostante la predominanza delle immagini di nudo, la fisicità che restituiscono queste tavole risulta evanescente, come se, malgrado la loro innegabile e insistita presenza corporea, l’essenza di questi personaggi risiedesse in un inaccessibile altrove, e ciò inevitabilmente li precludesse ogni possibilità di dialogo.
Lo straniamento che trasmette la prima parte della fanzine, si vede amplificato nel capitolo successivo, realizzato in collaborazione con E. Scara, i cui testi fanno da impalcatura per un ritratto di una routine alienante. In questo caso, però, la narrazione trascende la sfera domestica descritta nella sezione precedente per concentrarsi, invece, su una serie di prospettive enigmatiche, prive di un punto di fuga definito e non riconducibili a un contesto facilmente riconoscibile. Queste immagini sfuggenti, nelle quali la figura umana è quasi del tutto assente, sono corredate dal ritmo monotono dei testi, che, quasi con un mantra iterato e convulso, descrivono un insensato inanellarsi di gesti forzati («[…] legare, trasportare e sollevare ferro, sollevare, sollevare, sollevare ferro, trasportare, legare, la portanza umana»).
Questo senso di alienazione e solitudine, infine, viene ulteriormente ribadito nel terzo e ultimo capitolo della fanzine, intitolato “Dream baby dream”. Come in una sorta di estrema evasione, l’itinerario di Buonasera Monogamia approda all’universo dei sogni. La sfera onirica viene qui rappresentata attraverso il racconto incerto e stentato di un sogno, durante il quale le immagini del sonno e della veglia si sovrappongono e si confondono. L’impossibilità di rendere a parole la pienezza delle sensazioni oniriche trasmette un senso di nostalgia e incredulità, che pare suggerire che lo stato di vigilia che siamo abituati a considerare reale non sia altro che un riflesso sbiadito di una dimensione più autentica e, forse, accessibile solo a partire da altri stati di coscienza.
The Box Man non è un fumetto di facile interpretazione, o, più esattamente, è un fumetto che può dare adito a molteplici interpretazioni. Opera del brillante genio di Imiri Sakabashira, è stato pubblicato per la prima volta nel 2004 sulla rivista AX. Ci sono voluti quindici anni, però, prima che apparisse anche in versione italiana grazie all’edizione del 2019 curata da Star Comic (alla cui linea editoriale si deve riconoscere il merito di aver introdotto in Italia il lavoro di uno dei maggiori esponenti del gekiga contemporaneo).
Se si volesse riassumere con una parola il contenuto delle 237 pagine di questo surreale volume, la parola più adatta potrebbe essere «viaggio». Infatti, proprio come in quei viaggi nei quali più che la meta conta il fatto di procedere passo a passo lungo un percorso non per forza ben definito, anche durante la lettura di The Box Man si ha la sensazione di starsi addentrando, senza una chiara destinazione, all’interno di un universo psichedelico e multiforme.
I tre capitoli che compongono il libro rappresentano una sorta di itinerario visionario lungo il quale si susseguono ininterrottamente ambienti, creature, artefatti di ogni tipo. Le tre sezioni non sono unite da un vero e proprio filo narrativo, piuttosto, ciò che accumuna le diverse parti dell’opera è proprio il senso di avanzamento costante, rappresentato, dal punto di vista grafico, in modo estremamente efficace. In effetti, i disegni di Sakabashira sanno imprimere alla narrazione un ritmo che, seppure incalzante, non risulta mai convulso. Il tratto dell’autore è sicuro, ben definito, e riesce a riprodurre un fluire di forme organico, certamente minuzioso, ma per niente soffocante. Tavola dopo tavola, l’occhio percorre con piacere gli innumerevoli dettagli che colmano ogni pagina, nelle quali la sovrabbondanza di immagini non risulta opprimente, ma anzi, si dimostra un elemento fondamentale per lo sviluppo di un racconto che proprio nell’affastellarsi di visioni assurde e discordanti rivela il proprio senso più profondo.
Definire il significato di un’opera come The Box Man in maniera univoca sarebbe riduttivo. Certamente in essa è racchiusa una critica alla società contemporanea, frenetica e schizofrenica. Per esempio, l’immagine del personaggio del secondo episodio, che con la sua scatola in spalla tanto ricorda le figure dei rider delle compagnie di consegne a domicilio, sembra un’allusione diretta al consumismo e al precariato che caratterizzano le nostre vite. Allo stesso modo, la creatura dotata di chele che sta rinchiusa in quella scatola, e che si rivela essere il padre del protagonista, potrebbe rappresentare la degenerazione fisica causata dalla vecchiaia e la tendenza della società odierna a isolare tutto ciò che decade. O, ancora, nel personaggio femminile dell’ultimo capitolo, si potrebbe scorgere un riferimento alla sessualità spasmodica e distorta dell’era digitale, mentre, nelle continue apparizioni di figure grottesche e inquietanti si potrebbe leggere un’allegoria dei disturbi psichici dei nostri giorni.
Tuttavia, per quanto si tratti di un libro effettivamente disseminato di elementi che rimandano in modo piuttosto esplicito all’assillante quotidianità della vita contemporanea, il contenuto di The box man va oltre la semplice critica sociale. Come si è detto poco sopra, il significato latente di questo fumetto pare risiedere nel senso di movimento che sa trasmettere al lettore. I lunghi silenzi, il continuo mutare dei luoghi, l’ininterrotto succedersi di avvenimenti mai risolutivi fanno di questo libro un’opera di osservazione più che un’opera di denuncia. Si ha la sensazione, infatti, che l’obiettivo dell’autore non sia quello di dare risposte, ma piuttosto quello di raccontare itinerari curiosi e contradditori che poi starà al lettore decidere come interpretare.
Jim Ottaviani, ingegnere nucleare di formazione, ha lavorato come programmatore, caddy di golf, bibliotecario e, ad oggi, è uno dei più brillanti autori di divulgazione scientifica a fumetti. Tra le sue numerose biografie di scienziati (da Feynman, a Turing, Hawking, Newton e Galileo Galilei) la prima ad essere stata tradotta in italiano è quella dedicata a Niels Bohr, uscita per Sironi Editore nel 2013, in occasione del centenario della pubblicazione del modello di atomo del celebre fisico danese.
Come si legge nella prefazione al volume, scritta dallo storico della fisica Fabio Toscano, sebbene il modello atomico di Bohr sia ormai stato scalzato dai principi della moderna meccanica quantistica, «della sistematizzazione concettuale di questa disciplina, che è oggi la teoria di riferimento per fenomeni fisici su scala atomica e subatomica, Bohr fu il principale architetto, e del suo complessivo sviluppo il modello di atomo del 1913 ha rappresentato una tappa cruciale». Un pensiero abbagliante rappresenta, quindi, un doveroso omaggio alla figura di un uomo che nel corso dei suoi 77 turbolenti anni di vita arrivò ad affermarsi come una delle personalità più significative della scienza del XX secolo.
Lungo le trecento pagine che compongono questo corposo volume, Ottaviani ricostruisce la traiettoria scientifica di Bohr, inserendola all’interno sia del contesto storico e politico nel quale si sviluppò, sia della sfera di relazioni intime e professionali che il fisico intrattenne con amici, famigliari e colleghi durante tutta la sua vita. La prospettiva ampia e sfaccettata a partire dalla quale l’autore sceglie di imbastire la narrazione è, in effetti, uno degli aspetti più interessanti e rivelatori dell’opera. Infatti, illustrando le dinamiche macro e micro che influirono sul dibattito scientifico di quegli anni (dai critici interrogativi riguardo l’uso delle armi nucleari, agli scherzi, brindisi e battute tra scienziati) il libro permette anche al lettore profano di comprendere fino a che punto la scienza non sia un campo avulso dalle implicazioni più concrete e quotidiane della realtà.
I disegni in bianco e nero, realizzati dall’abile mano di Leland Purvis, sanno raffigurare con disinvoltura i diversi piani narrativi della storia, alternando illustrazioni dal carattere realistico (spesso quasi cinematografico) a tavole marcatamente astratte, intese a restituire visivamente un mondo di fenomeni di fatto invisibili all’occhio umano. Dal punto di vista grafico, l’unica pecca del libro è la quantità a volte eccessiva di testi. In alcune pagine, difatti, i dialoghi e le didascalie si fanno talmente fitti da rompere l’equilibrio tra immagine e parola. Tuttavia, non si può negare che, data l’ampiezza del tema e l’accuratezza con cui viene affrontato, difficilmente gli autori avrebbero potuto ambire a una maggior sintesi senza vedersi obbligati a sacrificare qualche aspetto dell’opera. La complessità (e talvolta prolissità) che caratterizza il libro rispecchia, dopotutto, l’effettiva complessità della tematica che in esso viene trattata. Più che auspicarsi maggior concisione, conviene dunque approssimarsi alla lettura con una buona dose di curiosità e di pazienza, e inoltrarsi senza fretta in un libro tortuoso, ricco di ricostruzioni storiche, digressioni teoriche, riflessioni filosofiche e un gran numero di divertenti aneddoti quotidiani.
D’altronde, la difficoltà dell’esprimere verbalmente i contenuti delle scoperte scientifiche è insita nel titolo stesso del fumetto che, nella sua versione originale, si intitola, per l’appunto, “Suspended in Language”. Il tentativo di tradurre in termini linguistici le teorie che diedero il via alla rivoluzione quantistica non poté non portare a riflettere sui limiti e le possibilità del linguaggio. E, dopotutto, da sempre una delle sfide della scienza è quella di trovare le parole adatte per dire delle verità che spesso eccedono la consapevolezza umana della realtà. Come affermò Bohr stesso (che a quanto pare era un pessimo oratore): «Quando si tratta di atomi, il linguaggio può essere usato solo come si fa nelle poesie» e, pertanto, meglio accettare fin da subito che ci sono cose che per essere comprese richiedono percorsi tutt’altro che lineari.
PORTUGAL
Scrivere un libro non è un percorso lineare, non si tratta di andare da un punto A a un punto B. Scrivere un libro significa intraprendere un percorso labirintico, un percorso che può portare a galla storie che non si sapeva di voler raccontare e il cui punto di partenza potrebbe trovarsi proprio là dove si pensava di trovare la fine. Queste sono solo alcune delle osservazioni che emergono dal breve video (https://www.youtube.com/watch?v=KzavAGsjHr8) realizzato da Cyril Pedrosa per raccontare il making-off del suo pluripremiato Portugal (pubblicato in Italia da Bao Publishing e vincitore del Prix BD 2011 della rivista Le Point, del premio FNAC 2012 al festival di Angoulême, del premio dei librai BD 2012 e del Gran Guinigi 2012 per Miglior disegnatore).
Come spiega l’autore, l’idea del libro gli è venuta nel 2006, durante un viaggio in Portogallo in occasione del festival del comic della piccola località di Sobreda. Nel corso di questa breve trasferta, Pedrosa (nipote di emigrati portoghesi in Francia) si ritrova a fare i conti con un passato famigliare sopito e mai risolto, a partire dal quale si propone di scrivere una storia. L’autore decide così di trascorrere tre mesi nel paesino di Os Matos, nella casa dei suoi lontani cugini, dove, per settimane, si dedicherà a raccogliere schizzi, fotografie, video, sensazioni e ricordi che, una volta fatto ritorno in Francia, costituiranno la materia prima per il suo progetto.
Nonostante il sostrato marcatamente intimo dell’opera, Pedrosa ci tiene a puntualizzare che Portugal non è un libro autobiografico ma, piuttosto, un lavoro di finzione realizzato a partire dal materiale che aveva intorno a sé. Infatti, leggendo il libro, ci si ritrova immersi in un contesto vivo, autentico e multiforme, rielaborato con quella freschezza che solo può nascere dall’osservazione diretta dei luoghi, delle persone e dei fatti.
Portugal è un libro semplicemente riuscito, sotto tutti i punti di vista. Nella tecnica versatile e sicura del disegno, nella leggerezza spontanea del segno grafico, nella schietta comunicabilità dei contenuti, nella struttura narrativa mai banale: in ogni pagina del libro è impossibile non notare il tocco disinvolto proprio di chi, dominando un mezzo espressivo in tutta la sua potenzialità, non lo impiega per fare sfoggio della propria destrezza, ma per raccontare una storia con il massimo dell’eloquenza e della sincerità.
Nelle tre parti che compongono il volume si sviluppano tre diversi punti di vista su una stessa storia: quello di Simon (giovane uomo sulla trentina, alter-ego dello stesso Pedrosa), quello di Jean (padre di Simon) e quello di Abel (nonno di Simon). La vicenda gira intorno a un’unica domanda che, a più riprese, viene rivolta al protagonista: «Di che cosa hai voglia?». Simon è, come molti trentenni, in crisi. Non sa cosa deve fare e, soprattutto, non sa cosa vuole fare. In maniera più o meno casuale, finisce per intraprendere un viaggio che lo riporta ai luoghi d’origine dei suoi avi portoghesi. Ripercorrendo a ritroso il vissuto della propria famiglia, Simon riesce pian piano a scardinare la prospettiva da cui era abituato ad osservare il mondo, arrivando poco alla volta a trovare nuovi approcci per interpretare la propria realtà e i propri problemi. Tuttavia, il viaggio di Simon non implica nessuna svolta o risoluzione folgorante. Al contrario, esattamente come nella vita vera, gli eventi in Portugal hanno un andamento sommesso, discreto, variabile. Non ci sono grandi colpi di scena, frasi ad effetto, lezioni definitive. La vera cifra dell’opera è, infatti, la semplicità, unita ad un’innegabile maestria grafica e narrativa.
Lo stile del disegno è versatile e si adatta al contenuto di ogni scena, dosando, a seconda della situazione rappresentata, l’apporto digitale, la spontaneità del gesto, la sintesi grafica e l’attenzione al dettaglio. Lo stesso autore afferma di essersi sforzato di adeguare le varie tavole al mood cambiante della storia e, effettivamente, uno degli aspetti più affascinanti del libro è senza dubbio la cura con la quale vengono colte le diverse atmosfere, le mutazioni della luce e i vari stati di coscienza che spaziano dalla veglia, al sonno, al ricordo. La precisione mai stereotipata con la quale Pedrosa sa riprodurre i dati sensoriali è in grado di restituire il ritmo altalenante di un viaggio sia fisico che introspettivo, di fronte al quale il lettore non può far altro che lasciarsi coinvolgere con estremo piacere e naturalezza.
HIKIKOMORI II
L’itinerario del collettivo Interiors all’interno del mondo degli hikikomori continua nell’albo Hikikomori II. Rispetto alla precedente fanzine della serie, questa pubblicazione è caratterizzata da una prospettiva meno cupa, nella quale trovano spazio l’ipotesi e il desiderio di un’eventuale apertura verso il mondo esterno. Infatti, dopo aver portato alla luce un fenomeno sociale ancora prevalentemente ignorato, in queste pagine i membri del collettivo non cedono alla rassegnazione, ma, al contrario, cercano di immaginare delle vie alternative verso un futuro che auspicano migliore e diverso.
I contributi che costituiscono l’albo sono numerosi e, anche questa volta, presentano punti di vista e stili grafici svariati. Inoltre, come in Hikikomori I, anche in questo caso ogni lavoro è corredato da un codice QR vincolato al video di una canzone, così che, pagina dopo pagina, si va componendo una vera e propria colonna sonora che accompagna il nostro percorso di lettura. L’utilizzo del linguaggio musicale permette al collettivo di arricchire la narrazione al di là della dimensione esclusivamente grafica e verbale propria del fumetto. Come affermato nell’introduzione alle tavole, «la musica, a volte, è più esplicita delle parole» e, effettivamente, qui la vediamo impiegata come un ulteriore mezzo espressivo capace di segnalare possibilità alternative di riscatto e di apertura.
Per quanto riguarda i contenuti della fanzine, in Hikikomori II vengono riproposte pressoché le stesse tematiche già analizzate nella precedente pubblicazione, ovvero, la denuncia delle cause che stanno alla base dell’emarginazione sociale, la descrizione dell’abitazione-prigione dove ha luogo l’esistenza degli hikikomori, il racconto degli effetti dell’isolamento sia sul corpo che sulla psiche, e gli innegabili nessi tra la sofferenza fisica e quella mentale. Anche in queste pagine, pertanto, trova ampio spazio la rappresentazione della solitudine, dell’angoscia e della paura, declinate in maniere diverse a seconda delle inclinazioni narrative di ciascun autore. Il problema dell’esclusione viene così affrontato e raffigurato attraverso molteplici forme, che spaziano da quella estremamente scarna e sintetica di Flaminia De Giuli in La giornata di un Hikikomori, a quella più parodistica e votata all’assurdo di Infinitelands con il suo Infine decise di vivere su di una sedia.
Come si è detto, la differenza sostanziale tra Hikikomori I e Hikikomori II si riscontra nella presenza dello sprazzo di speranza che, inaspettatamente, riesce a insinuarsi tra i lavori di questa seconda fanzine. Basta mettere a confronto le copertine dei due albi per notare come, dal nero uniforme e impenetrabile del primo numero, si passa qui all’esplosione di forme e colori dell’illustrazione Mitote di Tiziano Onesti. La monotonia scura che si imponeva nella prima copertina viene ora soppiantata da una forza immaginativa nuova, che sembra spronarci a dare ascolto a una vitalità già insita in ognuno di noi.
Questo stesso messaggio riappare a più riprese in molti dei contributi, come, per esempio, in I’m not alone, I’m by myself di Diletta Ugolini, e in It’s ok to be alone di Arianna Vittoria Beffardi. Entrambe le autrici, infatti, contemplano il concetto di solitudine a partire da un’accezione positiva del termine, vale a dire, come una condizione di intimità nella quale trovarsi da soli con sé stessi non implica un vuoto, ma una maggior presenza e consapevolezza. La necessità di non condannare la solitudine e di non incolpare chi soffre a causa dell’isolamento viene ribadita anche da @Domecolo in Ermetico, dove l’attenzione si concentra sul bisogno di affrontare il disagio del fenomeno hikikomori senza timore né pregiudizi a partire dal recupero della vicinanza con l’altro e con l’esterno. La rottura delle catene dell’isolamento viene dunque presentata come un’ipotesi concreta, un traguardo raggiungibile che dipende da uno sforzo sia individuale che collettivo.
Per sottolineare la possibilità di sovvertire il meccanismo che conduce alla chiusura e all’autoreclusione, i membri di Interiors concludono la fanzine servendosi delle stesse tavole che avevamo trovato in apertura del primo dei due albi, riproponendole, però, in ordine inverso. Se all’inizio di Hikikomori I avevamo visto come, nei disegni di ByUnknow, una porta si tramutava gradualmente in un mostruoso agglomerato di forme, irriconoscibile e invalicabile, ora quello stesso ammasso informe subisce una metamorfosi opposta, riappropriandosi a poco a poco del suo sembiante riconoscibile e rassicurante. Adesso che di nuovo vediamo una porta, sappiamo che è possibile uscire.
HIKIKOMORI I (terza parte)
Nel suo percorso all’interno dell’universo Hikikomori, il collettivo Interiors dedica una parte dei propri interventi alla descrizione del contesto fisico nel quale si rifugia chi si allontana da ogni tipo di dinamica sociale condivisa. Uno dei lavori che si concentrano su questo aspetto, è quello di Cristiano Baricelli, intitolato Isolamento. L’autore raffigura con tratti incisivi l’interno di una stanza buia, illuminata dal chiarore di uno schermo. Dall’oscurità vediamo emergere le sagome scarne di alcuni mobili, circondate da dei teschi. Questo ambiente tetro, nel quale l’unica fonte di luce è un debole bagliore artificiale, trasmette con efficacia l’idea di chiusura, di isolamento. La stanza, che doveva rappresentare un rifugio, diventa infatti una prigione, una sorta di cripta abitata da anime sepolte, interrate in una semioscurità costante. Sono pagine totalmente prive di testo, non c’è dialogo, solo silenzio. L’unica figura umana è quella di un bambino grottesco con in mano un joystick, le cui orbite oculari sono vuote, inespressive, esattamente come quelle dei teschi che gli stanno intorno.
Il tema della stanza-prigione viene ripreso anche da Neo-One. Creando una sorta di trittico, l’autore rappresenta l’evoluzione esistenziale di un personaggio che, da un’infanzia asfissiante nei ranghi di una società che gli inculca le proprie inflessibili norme, si ritrova a essere un ingranaggio lobotomizzato di tale società. Attraverso delle illustrazioni dall’estetica cronenberghiana, Neo-One rappresenta il graduale declino della coscienza individuale all’interno di un mondo di stimoli illusori. Troviamo, così, immagini di corpi mutilati, deformi, e, tuttavia, sorridenti, che ci ricordano con amaro umorismo che per essere liberi non basta possedere le chiavi della propria piccola prigione personale, dato che «una prigione diviene casa, se hai la chiave».
Di libertà parla anche Peter Vento in Tutto, dove, con un ritmo incalzante e un tratto fluido e veloce, presenta un turbinio di immagini poste una sull’altra fino a saturare le pagine. Sullo sfondo di una metropoli distopica (ma molto simile ai nostri ambienti urbani contemporanei), una figura femminile, nuda davanti a un fuoco, si ribella ai ritmi intollerabili che conduce la massa di persone che le sta intorno. Attraverso le frasi che scandisce tra la folla, questa figura proclama un ordine alternativo, una visione olistica dove l’umano non si impone ma si integra alla realtà della quale è parte. Progressivamente, l’immagine della metropoli cede il posto a un paesaggio naturale, quasi bucolico, sul quale compare la scritta: «sono quelle arie di confort spesso comode prigioni». Anche qui, l’attenzione ritorna sul tema della prigione, in questo caso intesa come l’insieme di bisogni innecessari che ci obbligano a una vita disumana. Tuttavia, liberarsi dalla prigione del confort e mettere in discussione le leggi che lo determinano è possibile, e sta a noi provarci, dato che, come dice l’autore: «Compà, liberi siam già… lo siamo sempre stati e lo saremo sempre».
Si inizia così a intravedere, in alcuni degli interventi della fanzine, un debole sprazzo di speranza. Per esempio, nel lavoro di Paolo Massagli, Over the roof, colpisce trovare un’atmosfera meno cupa e meno disumanizzata rispetto agli altri contributi dell’albo. Qui, finalmente, viene rappresentato un ambiente esterno, una scena notturna, all’aria aperta, nella quale osserviamo una ragazzina seduta su un tetto, con un’espressione pensierosa e malinconica. Intorno a lei ci sono altri tetti, altre case. La luna si staglia nel cielo e illumina un campanile, le tegole, le antenne tv. Questa serie di elementi semplici, riconoscibili, non distorti, ci fa tirare un sospiro di sollievo, lasciandoci sperare che possa ancora aver luogo una presa di coscienza, un pensiero in grado di spingersi oltre il disagio e la solitudine. Mentre siede tra i tetti, questa ragazzina viene raggiunta da un piccolo gatto nero, che le si avvicina instaurando con lei un contatto visivo, un rapporto ravvicinato, fondato su uno sguardo non giudicante, che suggerisce la possibilità di un vivere diverso, fatto di sguardi e di vicinanza, e magari anche di comprensione.
Segue una linea simile anche il lavoro di Bbraio, Oni wa soto! Fuku wa uchi! Il titolo riprende una formula giapponese che viene normalmente rivolta agli spiriti maligni durante il rito del mamemaki. Nel corso di questa cerimonia, una persona con indosso una maschera incarna il maligno, mentre gli altri partecipanti le tirano addosso dei semi di soia inscenando la cacciata del diavolo. Tuttavia, per far sì che l’esorcismo vada a buon fine, è necessario che ognuno mangi un numero di semi di soia equivalente ai propri anni, e reciti ad alta voce la formula «Oni wa soto! Fuku wa uchi!», ovvero: «Andate via demoni! Vieni avanti buona sorte!». Nelle tavole di Bbraio l’espressione giapponese anticipa due illustrazioni semplici, ridotte ai minimi termini, nelle quali vediamo una coppia di volti, vicini, in quiete, silenziosi. Anche questo lavoro sembrerebbe quindi concentrarsi su una dimensione di calma e di prossimità, senza dubbio necessaria per poter scongiurare i propri demoni interiori. Questa stessa quiete, infine, la ritroveremo anche nell’illustrazione di Tiziano Onesti, Far distante yes look out through yours, nella quale una ragazza in posizione di meditazione è affiancata da una nube di forme vorticanti che, fuoriuscendo dalla sua propria mente, rappresenta graficamente la forza di un pensiero creativo autonomo, capace di costituire una potenziale via d’uscita (e non di fuga) dalla gabbia opprimente dell’isolamento.
HIKIKOMORI I (seconda parte)
Nell’ultima recensione dedicata all’albo di Interiors Hikikomori I, ci siamo soffermati sui quei contributi che si occupano principalmente delle cause che possono portare a rifuggire il mondo esterno. Come dicevamo, però, il collettivo analizza anche altri aspetti del fenomeno, tra i quali uno dei più rilevanti è senza dubbio quello delle ripercussioni fisiche dell’esclusione sociale. Ovviamente, ritirarsi nel piccolo della propria abitazione, interrompendo le relazioni con le altre persone, produce una fisicità nuova, alternativa. Nella solitudine il corpo acquisisce un’estrema centralità, le sensazioni fisiche si amplificano e mutano, arrivando ad assumere forme e valenze anche molto inquietanti. Come rappresentare visivamente quel che sente nel proprio corpo un Hikikomori?
Nel disegno di Marco Tanca, intitolato semplicemente Hikikomori, osserviamo una figura di spalle inquadrata dall’alto, come se la stessimo guardando attraverso una telecamera di sorveglianza. Vediamo un ragazzo all’interno della propria stanza, curvo sul suo computer, assorbito dallo schermo, mentre una serie di cavi scendono dal soffitto e vanno ad inserirsi nella sua schiena. L’autore rappresenta così lo stretto legame tra rete e isolamento, e i suoi evidenti effetti fisici. Siamo noi a essere attaccati ai nostri device, o sono i nostri device ad attaccarsi a noi? Come tentacoli questi cavi si innestano fisicamente nella schiena del personaggio. Silenziosi e inosservati lo rendono passivo, succube e inconsapevole della sua dipendenza.
Maggior consapevolezza del proprio corpo dimostra, invece, il personaggio di Ouroboros, di Eva di Pace. Qui, il corpo, sempre più vuoto ed espanso, diventa una voragine incolmabile. Per questo personaggio il cibo arriva a costituire l’unico vincolo con il mondo esterno, mentre la sua fame vorace rappresenta l’unico elemento in grado di alleviare momentaneamente il disagio della sua solitudine. Questa figura grottesca, famelica, è incapace di affrancarsi dal ricatto delle proprie pulsioni chimiche, e la sua vera gabbia non è la casa in cui sta rinchiusa, ma la sua stessa carne. Quando all’improvviso le consegne a domicilio si interrompono, e il cibo smette di arrivare, sente che il cordone ombelicale che la manteneva legata alla realtà si spezza. L’isolamento si fa ancora più acuto, e con esso anche la fame. Di fronte all’impossibilità di trovare una valvola di sfogo per questo malessere soffocante, il personaggio si sottrae al proprio dolore attraverso una soluzione estrema. Come un serpente che si divora la coda da solo, questa mostruosa figura finisce per auto-fagocitarsi, divorando lei stessa l’insaziabile vuoto che la divorava.
Un altro breve contributo incentrato sulla corporeità degli Hikikomori è Who, di Rosaria Iorio. Si tratta di un’illustrazione dal carattere sintetico e astratto, che raffigura un insieme di forme geometriche affastellate che vanno a comporre una figura antropomorfa, metà casa e metà essere umano. Anche qui, il corpo subisce una metamorfosi, si modifica fino a venire inglobato dal luogo nel quale cercava un rifugio. Di questa casa-persona, rannicchiata su sé stessa, riconosciamo le mani, i piedi, le gambe, la schiena e, là dove ci si aspetterebbe di trovare un volto, si apre invece un vano buio a forma di schermo, vuoto. Nella parte inferiore del disegno si vede una distesa di casette tutte uguali, forse simbolo del conformismo e della ripetitività delle nostre vite identiche, impacchettate in serie. Sotto ognuno di questi tetti neri possiamo immaginare che abbiano trovato rifugio altrettante solitudini umane, una accanto all’altra e, tuttavia, incapaci di comunicare tra loro.
Il corpo è protagonista anche del lavoro di Titta D’Onofrio, 引き籠もり. In questo caso, la reclusione viene analizzata in quanto causa di percezioni fisiche rarefatte e ingannevoli. Un personaggio ripiegato su sé stesso, sofferente, all’interno di una stanza buia, all’improvviso inizia a sdoppiarsi. La sua immagine appare come specchiata, rendendo l’esistenza stessa del suo corpo fisico un semplice riflesso inconsistente. L’angoscia aumenta ulteriormente quando, nella pagina successiva, troviamo queste stesse immagini replicate identiche e miniaturizzate all’interno di un poster appeso a una parete, mentre un personaggio dagli occhi sgranati fissa uno schermo bianco e luminoso. Come scrive l’autrice, la condizione di isolamento porta gli Hikikomori ad «oscillare tra il niente e migliaia di mondi», intrappolati in una replicazione di immagini fallaci delle quali diventa difficile stabilire l’effettiva esistenza oppure l’illusorietà.
Vida Lockdown e Qua/Ran/Tina sono il prodotto di un’autoproduzione firmata Guitar_Boy, nome d’arte di Francesco Panatta. Si tratta di due brevi fanzine apparse a distanza di pochi mesi l’una dall’altra (tra il marzo e il giugno del 2021) e accomunate dalla stessa esigenza di raccontare a caldo l’esperienza del lockdown.
Entrambe descrivono delle circostanze riconoscibilissime nelle quali tutti ci siamo sentiti coinvolti in prima persona durante i primi tempi della pandemia. In quelle settimane, tutti siamo stati testimoni partecipi di una situazione anomala e destabilizzante, così come tutti abbiamo visto come, nell’arco di un paio di mesi, l’abitudinarietà e la routine riuscivano progressivamente ad imporsi anche sull’evento più impensato e straordinario accaduto degli ultimi decenni alle nostre latitudini. E mentre l’anomalia cedeva gradualmente il passo a una “nuova normalità”, appariva a poco a poco sempre più accettabile la possibilità di satirizzare su ciò che in un primo momento non induceva <s></s> nient’altro che <s></s>smarrimento o <s></s> paura.
Vida Lockdown e Qua/Ran/Tina appartengono a quel gruppo di narrazioni figlie del lockdown che, con una vena più o meno satirica, raccontano quelle nevrosi collettive e quei tic quotidiani che, in brevissimo tempo, sono passati dall’essere comportamenti inediti a rappresentare delle prassi della più omologata e massificata ordinarietà: la coda dal panettiere, la corsa all’ultima bustina di lievito per non rinunciare alla pizza fatta in casa, le liti domestiche, la solitudine, la masturbazione, le nuove dinamiche corporee e digitali per il sesso e per l’amore.
Per quanto riguarda la prima delle due pubblicazioni, Vida Lockdown, il carattere circoscritto dell’oggetto della satira fa sì che la narrazione tenda a cedere in più punti al luogo comune. Le 56 pagine del libro sono suddivise in cinque sezioni i cui rispettivi titoli (“Sostentamento”, “Il vuoto”, “Relazioni”, “Pulsioni”, “Introspezione”) ne esauriscono gran parte del contenuto. I suoi brevi episodi inscenano situazioni viste e sentite innumerevoli volte, esasperandole, ma senza aggiungere molto alla loro oggettiva cupezza.
Qua/Ran/Tina, invece, presenta uno sguardo più intimo e meno scontato. Il numero dalla copertina gialla qui presentato, uscito nel giugno del 2021, è il primo di una serie di quattro fanzine, la cui ultima uscita risale a maggio del 2022. L’asciuttezza grafica che già connotava il disegno di Vida Lockdown, in Qua/Ran/Tina si fa ancora più evidente, contribuendo a dar forma a una narrazione essenziale e incisiva che, in venti pagine, sa andare oltre la semplice caricatura di un disagio, riuscendo ad approssimarsi alle manifestazioni più riposte di un malessere condiviso da molti, senza per questo arrivare a imporre conclusioni moraleggianti.
Di fronte ad un unico piano mantenuto quasi completamente invariato dalla prima all’ultima pagina, osserviamo una ragazza che, seduta a un tavolo, si annoia, si sbronza, si angoscia al telefono, si impone l’imperativo etico della lettura ad ogni costo, si rispecchia negli occhietti del proprio gatto e in quello sguardo felino trova una consapevolezza che fa rabbrividire. Il tempo passa, il vento fa sbattere la finestra, la ragazza la richiude, resta imbambolata a guardare da dietro il vetro, fuma una sigaretta dopo l’altra finché, alla fine, non sopraggiungono i suoi fantasmi interiori che si palesano a loro piacimento in questo suo vuoto. Non una battuta, nessun cambio di scena.
Là dove Vida Lockdown parodiava per l’ennesima volta le nostre ansie quotidiane in cerca di una comicità che infine si rivelava piuttosto banale, Qua/Ran/Tina si concentra con una maggiore economia di mezzi su una solitudine rispetto alla quale forse c’è poco da dire e non troppo da ridere. Rinunciando alla satira più esplicita e al tono apertamente dissacrante, Qua/Ran/Tina sa parlare di una causa meno evidente del disagio che ha colto molti di noi durante il lockdown, la quale, probabilmente, trascende il periodo in fondo limitato delle settimane di quarantena. Una causa difficile da accettare e da raccontare nella sua sconcertante semplicità, e che, tuttavia, gli uccelli appollaiati su un lampione in Vida Lockdown sanno fin da subito cogliere con istintiva chiarezza: “È il silenzio, li fa impazzire”.
by krympling
“Il suicidio spiegato a mio figlio” di Maicol&Mirco è uscito nel gennaio 2015. Il volume, autoprodotto e distribuito secondo il metodo di prevendita tramite preordine “Prima o mai”, è apparso sul mercato con un’unica tiratura di 1050 copie, alla quale non è seguita nessuna successiva ristampa.
La dicitura “spiegato a mio figlio” inclusa nel titolo ci fa subito pensare a quella popolare categoria di libri di carattere pedagogico scritti con l’intenzione di rendere accessibile ai bambini la complessità di questioni o avvenimenti generalmente considerati cruciali per la loro formazione (si veda, per esempio: “Dio spiegato a mio figlio”, “Il razzismo spiegato a mio figlio”, “Il ’68 spiegato a mio figlio”, e così via). A giudicare dal titolo, quindi, lo si potrebbe prendere per un libro destinato ad un pubblico giovanile nel quale si abborda il delicato tema della morte volontaria.
Tutt’altro. “Il suicidio spiegato a mio figlio” è, in realtà, un piccolo e compatto manuale di 400 pagine per il giovane aspirante suicida.
Sulla base di una sobria scelta grafica bicromatica, il volume sviluppa due linee narrative parallele, alternando sezioni di nero su rosso a sezioni di rosso su nero. Le pagine rosse presentano una sorta di metanarrazione nella quale si inscena il rinvenimento, da parte di una coppia di poliziotti, di un manuale per giovani suicidi, opera di uno scrittore di testi per bambini che, prima di mettere fine alla propria vita, ha generosamente fatto dono alle future generazioni delle istruzioni necessarie per ammazzarsi nel migliore dei modi. Quando i due agenti iniziano a leggere il manoscritto rinvenuto, si apre la sezione stampata su carta nera, nella quale viene riprodotto integralmente il manuale che, a partire da questo punto, anche noi potremo leggere per intero, accompagnando idealmente la coppia di poliziotti nella sua lettura.
Questo provocativo compendio per il perfetto suicida si articola in quattro parti che parodiano brillantemente, sia nella struttura che nel contenuto, altre più convenzionali opere divulgative di carattere precettistico.
Nella prima parte, intitolata “Le maniere”, vengono esposti in rigoroso ordine alfabetico numerosi possibili metodi per farla finita. La gamma di possibilità è ampia, la libertà di scelta è innegabile, ce n’è per tutti i gusti: balcone, benzina, corda, lametta ecc. Il linguaggio è chiaro, diretto, e scimmiotta il gergo infantile riportando espressioni come “mamma”, “papà”, “pappa”, “pipì”, “fare il cattivo”. L’eventualità di scegliere di ammazzarsi risulta così una verità semplice, di cui si può parlare con le parole più elementari e che, verrebbe da dire, “capirebbe persino un bambino”.
Segue il capitolo “La programmatica del suicida” che, di fronte alla necessità di lasciare ai vivi un appunto ben scritto così da non rendere “tragicomico” un invece “consapevolissimo atto”, fornisce una carrellata di esempi da non seguire al momento di buttar giù in poche linee le ragioni per le quali si è deciso di lasciare questo mondo. Gli esempi sono numerosi, pieni di rabbia, di errori di ortografia, di insulti, di imprecazioni e bestemmie, così carichi di assurdo e di humor nero da persuaderci che, in effetti, forse questa vita non è poi sempre così desiderabile e preziosa come si dice (dal “Cara Mamma m’ammazzo. Tu ti togli un pensiero. Io mille”, allo “Spero che non esiste dio così non ci rivediamo più”, fino al caustico “Papà adesso chi si incula”).
Il terzo capitolo, “I grandi maestri”, propone invece una serie di esempi di suicidi ingegnosi che, in più di un’occasione, hanno trovano la morte esasperando comportamenti che potrebbero dirsi socialmente accettabili se non addirittura lodevoli. Troviamo così chi per uccidersi esaspera l’amore nei confronti della famiglia, sterminando i propri amati parenti per poi lasciarsi morire disidratato per il troppo piangere; c’è chi si suicida per mezzo di un eccesso di stoicismo, attendendo in tutta tranquillità l’arrivo della propria ora; c’è il padre del signor Guillotin, che per puro orgoglio genitoriale sperimenta sul proprio collo l’invenzione del figlio geniale; e c’è anche Pinocchio, che, pur di rifiutare la menzogna, accetta di far propria la condizione mortale dei bambini in carne ed ossa.
Sorge così una contraddizione di carattere morale: se anche i costumi e i sentimenti più virtuosi possono sfociare nell’auto-annichilimento, siamo proprio sicuri che uccidersi sia un’azione immorale? Chi ha detto che il suicidio sia un atto condannabile, considerato che può essere il risultato delle più integre e oneste condotte?
La risposta la troviamo nel quarto e ultimo capitolo, “Mario il professore”, nel quale entra in campo la voce dell’autorità costituita, incarnata dai personaggi del professore, della madre e del prete. Per i tre, l’idea di uccidersi è indecente, in quanto ostacolo per il compimento di quell’equilibrio tra doveri e piaceri, correttezza e soddisfazione, a cui tutti i membri integri della società dovrebbero ambire. Con una prosopopea, il suicidio arriva ad essere assimilato alla figura di quel “compagno fico delle scuole medie” che ci portava sulla cattiva strada del dubbio, mettendo in discussione tutto il ragionevole e l’accettabile.
Terminata la lettura del manuale, la parola fine non potrà che arrivare dopo che, ritornati sul piano metanarrativo, uno dei due poliziotti mette in pratica i precetti appresi e si impicca, seguendo il richiamo del trasgressivo e incompreso “compagno fico delle scuole medie” che, in sella alla sua motoretta truccata, ci invita a ritrovare nell’altro mondo il nostro libero margine di azione.
L’umorismo corrosivo di questo atipico manualetto pedagogico si rivela l’arma ideale per affrontare non tanto il concetto di suicidio in sé, quanto il cinico sistema di desideri, bisogni, tappe e traguardi imposto da una società che pare prevedere una, e soltanto una, chiave di accesso alla felicità. L’estrema essenzialità grafica e cromatica delle tavole garantisce un ritmo incalzante, agile, le pagine si susseguono rapide come fotogrammi grazie ad una composizione misurata che sa alternare abilmente pause, sguardi, esternazioni. La drastica sintesi del disegno viene compensata dal realismo linguistico di una lingua titubante, incerta e frammentata che, oscillando tra comicità ed esasperazione, ci mette davanti alla scelta non tra vita o morte, ma tra conformismo o ribellione.
by krympling
“Mu, la città perduta” è stata concepita da Hugo Pratt come l’ultimo episodio delle avventure di Corto Maltese. Apparsa per la prima volta nel 1992, l’ultima edizione italiana risale al 2021 per Rizzoli Lizard.
Lungo il suo un tortuoso intreccio, il libro riporta in scena i più noti personaggi della saga (Rasputin, Bocca Dorata, Soledad, Tristan Bantam, Lévi Colombia, il professor Steiner), riuniti ancora una volta in quest’ultima avventura disseminata di enigmi e simboli di non facile interpretazione. Partendo alla ricerca di un continente perduto, Corto intraprende un labirintico viaggio dal forte carattere introspettivo, durante il quale dovrà mettere in discussione i fondamenti stessi della nostra realtà razionale ed eurocentrica.
Fin dalla prima pagina l’atmosfera è surreale. Il libro si apre, infatti, con una visionaria conversazione tra le figure di un dipinto maya sommerso nelle profondità dell’oceano, di fronte alle quali l’immagine di Corto fa la sua primissima apparizione da dietro il vetro del casco di uno scafandro da palombaro. Fluttuando tra pesci e reperti archeologici, il personaggio viene così fin da subito inserito all’interno di un habitat e di un tempo storico a lui estranei, permettendo in questo modo all’autore di introdurre il tema dell’estraneità, che sarà una costante di tutta l’opera.
L’evento che dà il via alle avventure della compagnia risuona di conflitti coloniali tra europei e popoli precolombiani. La tribù indigena dei Ciboney scambia Soledad per Kukulcan, il Dio Testa di Sole, e la rapisce per poter assicurarsi la continuità di una stirpe perduta di uomini bianchi dagli occhi azzurri. Allo stesso tempo, un gruppo di pirati, esperti distillatori di rum, coltivatori di marjuana e amanti della musica classica, pianifica un assalto alla Colombia, che tuttavia Bocca Dorata saprà sventare ipnotizzando il loro capo. L’amalgama di personaggi e culture a metà strada tra storia reale e finzione, si arricchisce ulteriormente quando, sbarcati sulla terra ferma, i membri dell’equipaggio si imbattono in un idrovolante precipitato nel bel mezzo della giungla, a bordo del quale si trova Tracy Eberhard: un’amica dell’aviatrice statunitense Amelia Earhart, ovvero, la prima donna ad aver attraversato in solitaria l’Atlantico nel 1932 prima di scomparire misteriosamente nel Pacifico cinque anni più tardi.
Dopo che la compagnia trova un antico tempio maya, che si rivelerà la via d’accesso all’antica città di Aztla, ha inizio una lunga serie di vicissitudini che condurranno il protagonista attraverso un complicato intrico di dimensioni oniriche, remote, perdute negli abissi evanescenti di epoche e regni ormai estinti.
Una volta all’interno del tempio, Corto deve fare i conti con gli Uomini Scorpione, con le sabbie mobili, con i caimani, fino ad incontrare Fra’ Brendan di Kerry, l’ultimo discendente di San Brandano, abate irlandese del VI secolo. Il frate gli spiega che per ritrovare Soledad dovrà oltrepassare il Labirinto Armonico, ovvero un luogo in cui risuonano le vibrazioni sonore dei secoli passati, vero emblema di un tempo circolare e inestinguibile. Per riuscire ad attraversare le pieghe spazio-temporali del labirinto, Corto si vedrà obbligato a combattere con la sua stessa ombra, ma solo dopo aver assunto dei funghi allucinogeni che gli consentiranno di penetrare nei più oscuri interstizi della propria coscienza per spogliarsi delle proprie razionali certezze e accedere a un livello di consapevolezza che passa dalla dimenticanza di sé.
Finalmente fuori dal Labirinto Armonico, Corto approda ad uno dei luoghi più enigmatici al mondo: l’Isola di Pasqua. Al cospetto delle famose e indecifrabili figure di pietra, trova l’ingresso per il mondo perduto nel quale Soledad è andata in sposa al principe Hugues. Inaspettatamente, la donna si rivela felice del compito per il quale è stata prescelta, orgogliosa di poter contribuire alla propagazione della razza perduta. Colei che doveva essere tratta in salvo si mostra, così, perfettamente integrata al popolo dei suoi rapitori, mettendo in luce la relatività dei valori morali da cui scaturiscono i conflitti tra i popoli.
Arrivati a questo punto, l’avventura sembrerebbe giunta al suo lieto fine. Tuttavia, la storia non si conclude ma, al contrario, continua a protrarsi in maniera travolgente, quasi come se una risoluzione definitiva, che ne sancisse la fine una volta per tutte, non si addicesse a questo universo vorticante, fatto di mondi paralleli e non escludenti.
Proseguendo il suo viaggio, Corto riesce infine a raggiungere Aztla. Nella città, situata sotto un vulcano quiescente sull’isola di Quetzal, regna la regina Anti insieme alle sue affascinanti amazzoni. Si scopre che questo popolo di donne guerriere ha scambiato Tracy per la reincarnazione della dea Colibrì e l’ha fatta prigioniera, nella convinzione che solo il suo intervento consentirà loro di liberare la città dall’assedio degli Uomini Ragno. Ancora una volta, sono i malintesi, le letture contrastanti del reale, il vero motore dell’avvicendarsi delle avventure.
Dopo un’effettiva sconfitta degli Uomini Ragno grazie all’aiuto di Tracy, l’inanellarsi apparentemente infinito degli eventi viene bruscamente interrotto dall’eruzione del vulcano. L’esplosione polverizza ogni cosa: nomi, civiltà, popoli, mondi e conflitti. Del lungo viaggio di Corto non resta che una nube scura, eterea, che pare suggerire che tutto non sia stato altro che un sogno o un’allucinazione.
Qualche giorno dopo l’esplosione, Corto raggiunge un isolotto dove rincontra Levi Colombia. Si direbbe che la storia sia giunta alla sua conclusione. Eppure, più che un finale, l’ultima pagina del libro sembra rappresentare una semplice interruzione, una pausa prima di una nuova partenza. Infatti, nonostante nell’atmosfera sospesa dell’atollo la ricerca di una nuova via d’accesso per Mu momentaneamente si arresti, la sete di conoscenza non si è estinta e, come dice Corto: «Forse bisognerebbe ricominciare. Forse…»